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 "Parole per Giulia"

 

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 Lo stupro è violenza: un crimine contro la persona.

 In Italia è stato definito  come tale solo nel 1996. Prima era un crimine contro la morale, il che praticamente metteva chi stuprava e chi lo subiva come ugualmente colpevoli per aver leso la collettività.

 Come se non bastasse, fino al 1981 era un reato che poteva decadere grazie al "matrimonio riparatore" (ovvero, il violentatore accettava di sposare la vittima).

 Queste leggi hanno fatto sì che si diffondesse l'idea che bere troppo o indossare certi abiti o essere sessualmente libera fosse un incitamento da parte della donna all'essere abusata. E ha portato le donne a non denunciare più gli stupri e le violenze e a subire in silenzio. Perciò sono aumentati in maniera vertiginosa negli ultimi anni,

 La verità è un'altra:

  forzare una situazione a cui si è ricevuto un "no" come risposta è violenza

  forzare un rapporto sessuale a cui si è ricevuto un "no" come risposta è violenza carnale, ovvero stupro. 

 Ora, è comprensibile che in una società in cui ci viene detto che solo l'insistere e il continuare a provarci ci permetterà di ottenere risultati, sia difficile pensare che un "no" in realtà non sia un incitamento a insistere, a far cambiare idea, a farsi accettare. Ma qui si tratta di un conflitto di volontà... di un'imposizione di potere... di prevaricazione... di sopraffazione. 

Per imparare la differenza dobbiamo saper aprirci al confronto con il/la partner, parlando e stabilendo i limiti.

Per analizzare la situazione con obiettività, dobbiamo studiare e possiamo ricorrere al cinema, che per primo ci ha mostrato cosa significa stupro e quali siano le conseguenze fisiche ed emotive sul corpo e sulla mente di una donna. Ora esiste anche una letteratura a riguardo. Perché non ci sono più scuse.

 

  

"Sotto accusa" (1988, Jonathan Kaplan) è il film che mi ha aperto gli occhi al riguardo.

 Sarah Tobias aveva solo bevuto e un po' flirtato in un bar ed è stata violentata su un flipper, con una mano sulla bocca e gli uomini che la tenevano ferma. alternandosi a turno dentro di lei.

 Il suo "no" in tribunale non regge e nemmeno il suo stile di vita non convenzionale.

 Ma il suo dolore è reale e solo quando lo stupro raccontato diventa immagini ne comprendiamo la violenza.

 

 

 

 "La ciociara" (1960, Vittorio De Sica) vede mamma Cesira e figlia Rosetta violentate in una chiesa.

 È il 1943 e le due stanno cercando riparo dagli orrori del fascismo che ormai ha condizionato le loro vite, in paese come a Roma, quando vengono ulteriormente torturate da questa violenza che sempre purtroppo si accompagna alle guerre.

 L'urlo di Sophia Loren, e la sua rabbia, ti entrano dritti nel cuore. 

 

  "Uomini che odiano le donne" (2009 Niels Arden Oplev - 2011 David Fincher) già dal titolo è significativo.

 Tutto il film (così come il romanzo di Stieg Larsson da cui è tratto) ruota attorno a una serie di femminicidi che si sono protratti negli anni senza mai trovarne il colpevole.

 Ma è la scena di Lisbeth Salander, legata e costretta ad un rapporto sessuale (anzi, a più di uno) dall'uomo che dovrebbe occuparsi del suo patrimonio e del suo benessere, a rimanerci addosso... come tatuata sulla pelle.

 

 

 

 In "Una donna promettente" (2020, Emerald Fennel) Cassie Thomas mette in scena ogni sera "la ragazza da stuprare".

 Si mostra vulnerabile, debole, incapace di reagire alla volontà maschile.

 Si fa portare fuori dal locale in una stanza da letto o nel posto appartato più vicino e si vendica.

 Lo fa per chi non ha potuto farlo.

 

 

 

 

 Il titolo "X"(2021, Fandango)  si riferisce a un tatuaggio sul dito di Valentina MiraVolevo ricordarmi che posso dire di no. Che talvolta devo dire di no. Non è mai stato un concetto scontato per me e, quando l'ho realizzato, ho scelto di stringere un patto col mio corpo per non dimenticarlo più.

 La violenza crea la vergogna. E la vergogna produce la violenza - scrive - Bisogna spezzare il cerchio [-] Bisogna trovare il coraggio di parlare. 

 Questo libro è il suo coraggio. Il coraggio di raccontare le sue molte verità.

 La prima è legata all'assenza del fratello che, dopo una complicità affettuosa, se ne va dalla sua vita senza una parola. Ricompare solo una volta, qualche anno dopo, ma è solo un'immagine nella videocamera di sorveglianza, mentre sta spaccando le auto dei genitori, dopo essere entrato furtivamente in garage. A fargli da palo, G.: Tu mi hai regalato il tuo canto di Natale, il peggiore che potessi immaginare: vederti amico suo, suo complice. 

 Perché G. è la seconda verità di Valentina: il "fascistello" spacciatore che l'ha stuprata l'estate della sua maturità. C'era un flirt in atto tra loro già da qualche tempo ma, a quella festa, lei beve un po' troppo e lui se ne approfitta: Scappare forse sarebbe la cosa più intelligente. Ma in situazioni di pericolo si mette in atto un automatico la strategia di sopravvivenza che si conosce meglio. E la mia, purtroppo, è fingermi morta. Peccato che non sia funzionale in caso di stupro. 

 La terza amara verità è il silenzio La madre è troppo cattolica per poter reggere la conversazione (Nel momento esatto in cui scelgo di proteggerti da questo brutto sogno tenendomelo per me, è lì, in quel momento lì, che io smetto di proteggere entrambe). Il padre pensa che certe cose non possano capitare a certe famiglie. G. stesso, il giorno dopo, venuto a scusarsi per la scarsa prestazione sessuale, al sentir parlare di denuncia le dice che nessuno le crederà perché tutti l'hanno vista baciarla, alla festa. Il carabiniere a cui sporge denuncia la ascolta e le fa domande ma qualche ora dopo lo manda un messaggio per chiederle di uscire. Il fratello, a cui lei racconta tutto perché lo vede fare il saluto fascista a G., preferisce credere al suo amico: Non sia mai che ti contagi il dolore. Non sia mai che ti senti complice.

Valentina Mira non ha filtri. È sincera, diretta. Usa frasi corte e metafore. Scrive riflessioni profonde sul fascismo e sulla bellezza femminile. Sperando che il fratello, leggendole, capisca la verità: Ora, fratello, sta a te, sta a voi. Se vorrete, se avrete il coraggio che serve a spezzare un silenzio omertoso e, quello sì, gratuitamente violento. Altrimenti, faremo senza.

 

 

 Si pensa alla violenza di genere come a un caso fortuito, a una "sfortuna" che può capitare. 

 Carlotta Vagnoli in "Maledetta sfortuna - Vedere, riconoscere e rifiutare la violenza di genere" (2021, Fabbri) la pensa in modo diverso: Non è sfortuna ma è maledetta sfortuna: maledetta perché reiterata, comune, contagiosa, normale, che si annida ovunque, in modo trasversale e che possiede, come in un brutto film horror, tutta quanta la nostra società. La sola sfortuna non basta, infatti. Rilegherebbe gli episodi di violenza a una mera casualità. Qui invece siamo davanti a un fenomeno maledetto perché radicato, storico, culturale, antropologico, a cui siamo incollati, incastrati e da cui siamo soggiogati da sempre. 

 Non si tratta solo dell'opinione dell'autrice, ma di un dato di fatto.

 Stereotipi di genere (che arrivano coi riti che permettono di scoprire e/o modificare il sesso del nascituro); prevaricazioni su ciò che non si accetta dell'altr∂; catcalling; violenza economica; stalking; stealthing; stupro; violenza psicologica e domestica; condivisione non consensuale di materiale intimo; femminicidio.

 Osservando i dati relativi, scopriamo che non sono una casualità, ma "pratiche" ormai comuni alla realtà quotidiana, accettate tanto quanto gli incidenti stradali o le malattie... è sufficiente un "eh ma mica succede a te" oppure un "eh ma te la prendi con niente" e già non è più sfortuna, ma è diventata maledetta perché non valutata come abitualmente presente nella quotidianità.

 Carlotta Vagnoli li analizza uno a uno (ci sono situazioni ben precise che si verificano), mostrandoci come ne siamo soggett∂ e nemmeno ce ne accorgiamo. Ci fidiamo di qualcun∂ che la maggior parte delle volte conosciamo... ci fidiamo di una battuta, di una presa in giro scherzosa, di un complimento, della gelosia, di un rapporto sessuale in cui non ci sentiamo a nostro agio, della paura di una separazione, e ci ritroviamo all'interno di una di queste pratiche senza nemmeno averlo capito, perché convint3 sia colpa nostra, del nostro comportamento, del nostro corpo e delle nostre parole... e spesso senza via d'uscita. (Nel libro ci sono anche le vie d'uscita). 

 Conoscerle ci aiuta ad averne coscienza e a stabilire dei limiti. 

 Certo, una corretta educazione sessuale, il rispetto verso l'altr∂ e la sua libertà, politiche di welfare, un linguaggio non sessista e una richiesta di consenso sarebbero le soluzioni alla "maledetta sfortuna".

Mentre lottiamo per arrivarci, direi che smettere di dire (e scrivere) "se l'è cercata", "delitto passionale" e "io non sono così" e prendere coscienza che è facile diventare abuser o vittima sia un ottimo inizio.   

 

 

"No significa no - Creare una cultura del consenso per combattere la cultura dello stupro" di Benedetta Lo Zito (2022, Eris) è un libro sottile in quanto a numero di pagine ma potente.

 Basta leggere la prima frase: Viviamo in una società (soprattutto quella italiana) incredibilmente sessuofobica e, benché lo stupro sia causato esclusivamente da dinamiche di potere e dominio, viene comunque associato inevitabilmente alla sua parte fisica e sessuale e l'accento viene posto sulla vittima e sulla ricerca ossessiva della sua colpevolezza. Raramente ci si concentra sulla colpa dell'abuser (la persona che stupra) che pare innocente fino a prova contraria anche quando risulta evidente che non è così, che ci sia una condanna o meno. Neghiamo perfino che la "cultura dello stupro" esista, quell'insieme di comportamenti, pensieri e norme socialmente accettate che contribuiscono a plasmare una società in cui le violenze sessuali accadono e sono tollerate. Le donne si rifiutano di credere di vivere in pericolo costante e gli uomini non vogliono sentirsi responsabili per questo.

 Capisci fin dalle prime parole che Benedetta Lo Zito sa di cosa sta parlando. L'ha provato e l'ha vissuto. Ma decide di raccontarci la sua esperienza solo alla fine. Se avesse iniziato con quella, non avremmo capito... ci saremmo comportat3 come chi è immers∂ nella cultura della stupro da sempre... e invece dobbiamo riconoscerla prima di sapere di dettagli. Vorrei dire che ne sono completamente uscita, ma mentirei. La guarigione da un passato di abusi sessuali è un viaggio, una danza che fai insieme ai demoni che ti porti dentro. A volte guidano loro, ma sempre più spesso ti accorgi che il ritmo inizi a darlo tu. Non dimentichi, non perdoni, ma impari di nuovo a respirare. Impari a vivere ancora secondo le tue regole.

 Il 70% delle violenze sessuali è commessa da persone che conosciamo e di cui ci fidiamo.

 La soluzione non è negare la realtà: a essere stuprate sono donne, uomini e appartenenti alla comunità LGBTQI+ e al sex work e questo numero aumenta ogni giorno, silenziosamente.

La soluzione è educare al rispetto e al consenso... e al metterci bene in testa che nessun∂ ti appartiene e tu non appartieni a nessun∂... non hai alcun diritto sul corpo altrui. Anche, e soprattutto, se sei eccitat∂. Accettare di fare sesso per non perdere qualcuno, per pressioni, "dovere coniugale" o ricatti (il classico "se mi ami") non è dare attivamente il proprio consenso. L'unico motivo valido per scopare con una o più persone è la voglia di farlo in quel momento. Punto.

 

 La "saggezza popolare" giudica sempre la donna come ammaliatrice e da condannare.

 Ma "Processo per stupro" del 1979 porta alla sbarra una donna e tre uomini. E viene trasmesso in televisione per la prima volta, denunciando così questo atteggiamento.

 L'avvocata Tina Lagostena Bassi chiede infatti 1 lira per Fiorella e devolve il risarcimento per un centro antiviolenza. A quei tempi è purtroppo comune la pratica della "mazzetta" decisa tra giudici per salvaguardare la reputazione degli imputati, che nemmeno si rendono conto della gravità di ciò che hanno fatto.

 Si parla di quanto può valere una donna in denaro, di come sia una ragazza seria, di quanto sia compromettente una passeggiata diurna o notturna e di che genere di vita conducesse Fiorella, per arrivare a quanto siano pericolose le fauci avide durante una fellatio mentre per il cunilingus ci si appella all'adorazione dell'arcangelo Gabriele.

Lo scopo del documentario è dimostrare con quanta facilità il processo venga fatto alla donna e non ai veri imputati: "Se fosse stata a casa davanti al caminetto non sarebbe successo niente".

L'avvocata è cristallina in proposito, chiedendo giustizia per modificare la concezione della donna come oggetto sessuale in modo che si sentano al sicuro nel denunciare. La sua arringa è passata alla storia e l'intero documentario (disponibile su Youtube a questo link) è potente e significativo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Coinquilin* di antinnocenza: