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 "Un lunedì di corsa"

 

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 L’italiano va imparato di nuovo.

 Non possiamo più fare finta di niente. Basta nascondersi dietro i “suona male” e i “si è sempre fatto così” pur di non usare le parole come vanno usate. É tempo di inclusione.

 Il modo più semplice per dare a ogni persona visibilità è immetterla nel discorso. Non basta dare loro un ruolo sociale, è fondamentale chiamarla col  giusto appellativo.

 Per comunicare in modo inclusivo occorre dare spazio a tutti i generi.

 Iniziamo quindi a smetterla col maschile sovraesteso. Al mondo non ci sono solo i maschi ma anche le femmine e tutta la comunità LGBTQI+ e chi non accetta di appartenere ad una categoria precisa. 

 Si era iniziato usando l’asterisco, ma è impronunciabile, quindi si è optato per la schwa (ovvero la desinenza -ə al singolare e -3 al plurale). Ricordo Michela Murgia (autrice, con Chiara Tagliaferri, del primo libro pubblicato in cui appare quel simbolo, “Morgana - L’uomo ricco sono io”) che ad una conferenza disse che è una lettera comune in tutti i dialetti d’Italia, che suona come una “u” ma un po’ più chiusa. Una schwa salva anche dal dover raddoppiare, in un discorso, tutte le parole (“Buonasera a tutti e tutte”, tanto per dirne una). Se non piace, si può sempre inventarsi una soluzione migliore, basta che si diffonda e sia inclusiva.

 Poi, è importante definire al femminile le professioni che hanno un femminile. Non è una cosa nuova inventata dall’Accademia della Crusca per farci impazzire. Apri il vocabolario et… voilà… c’è scritto, sono parole italiane. Ovviamente, perché esista un femminile in una professione, ci vogliono donne che di mestiere hanno scelto quel mestiere… e che vengono pagate per svolgerlo in modo equo (e qui, ammetto che siamo già in un campo minato).

Perché dobbiamo imparare di nuovo la nostra lingua??

Per ottenere i diritti che ci spettano. Come facciamo a parlare di uguaglianza se non siamo capaci di includere ogni persona del pianeta nel discorso???

 

 

 Per imparare ad amare le parole e usare il linguaggio in modo inclusivo, leggi Vera Gheno.

 È una sociolinguista ovvero studia le manifestazioni linguistiche delle persone allo scopo di trarne considerazioni riguardo alla loro educazione, all'estrazione sociale, alla cultura e così via. 

 Ti fa letteralmente innamorare dell'italiano insegnandoti come si possa imparare molto da come le persone si esprimono e dalle parole che usano... ed è così brava che io prendo pagine e pagine di appunti e mi segno di approfondire certe tematiche.

 I pilastri di "Le ragioni del dubbio" (Einaudi, 2021) sono tre: dubbio, riflessione, silenzio, che costituiscono un approccio ragionevole a ogni argomento che ci viene proposto.

 1- Diffida di chi non ha mai un dubbio. Non è vero che è pien∂ di certezze su tutto e sulla propria vita: semplicemente, non ha la voglia e/o la capacità di riconoscere i propri limiti e di voler progredire ed evolvere per paura di capire che in realtà di certezze non ne ha. Non abbiamo bisogno di qualcun∂ che ci dia ragione, ma di chi ci faccia ragionare su ciò su cui non abbiano dubbi. Il dubbio infatti è una molla molto potente, che ci fa muovere velocemente verso la verità, per cui Vera Gheno lo usa per contrastare le manipolazioni dandoci esempi pratici.

 2 - Ogni parola che pronunciamo e scriviamo deve essere la conclusione di una riflessione. La vita è frenetica e complicata, ma lo diventa ancora di più quando ci esprimiamo senza averci pensato: ci vogliono consapevolezza e responsabilità. E se non abbiamo capito dobbiamo dirlo, senza vergognarcene, o alimenteremo ancora di più il caos. La domanda che ci pone la sociolinguista è fondamentale: Riesco a reggere le conseguenze di ciò che sto per dire o scrivere? E ci aiuta a differenziare i contesti in cui lo si fa e il tipo di persone che "vi abitano" per poter rispettare la sensibilità altrui ed eventualmente scusarsi nel modo più adatto.

 3 - Stare in silenzio non significa solo "non ho voglia di rispondere" o "non mi interessa". Il silenzio ha differenti sfumature. Perché a volte si ha un bisogno vitale di tacere e di raccogliere le idee... e non sempre avere un'opinione è obbligatorio: si deve riflettere con attenzione, prima di averne una.

E c'è una parola in più in questo libro: fatica. Non è facile migliorare il nostro modo di comunicare, ma si può farlo, con curiosità.

A quel punto, ci si apriranno davanti mondi meravigliosi perché la comunicazione deve essere generativa: un modo di scrivere e fare informazione che non vuole manipolare e non vuole esibire la propria preparazione, ma vuole costruire ponti e, soprattutto, dare. Con questo libro impariamo a farlo grazie agli strumenti migliori

 

  Uno dei "problemi" linguistici del nuovo millennio è nell'uso della vocale a fine parola nelle professioni.

 In "Femminili singolari - Il femminismo è nelle parole" (2019, Effequ) Vera Gheno ci racconta l'origine di questo dubbio.

 Ovvero il rispettoChiamare le donne che fanno un certo lavoro con un sostantivo femminile non è un semplice capriccio, ma il riconoscimento della loro esistenza [-] e pazienza se ad alcuni le parole "suonano male": ci si può abituare. Tante parole "suonano male" eppure le accettiamo.

  Il linguaggio segue l'evoluzione umana: se ora le donne occupano posizioni lavorative che prima erano solo maschili, è giusto anche un riconoscimento teorico quando ci si rivolge a loro in quel ruolo: L'introduzione di  "nuovi femminili" professionali non è frutto di un complotto dei poteri forti o un segno di decadenza della lingua italiana, quanto piuttosto la semplice conseguenza della comparsa di sindache, ministre, assessore, ingegnere e così via. Un'altra considerazione per contribuire, forse, a relativizzare il dibattito riguarda il percorso inverso: ci sono alcuni casi di lavori che prima erano tipicamente femminili, in primis l'ostetrica, che oggi vengono svolti anche da maschi; e, in questo caso, il termine ostetrico è entrato nell'uso senza grossi problemi. 

  Comunque. per non sbagliare, la convenzione applicabile dice che se il vocabolario (aggiornato all'anno in corso - ma già dal 1995 esiste questa norma) prevede una declinazione al femminile, va usata. Punto.

 I commenti in merito sui social (il libro ne presenta un'ampia varietà con le relative risposte - e vorresti fare una OLA a Vera Gheno per ognuna di esse) non fanno che evidenziare l'immensa sicurezza che abbiamo sull'uso delle parole e/o una scarsa attitudine ad accettarne la loro naturale evoluzione e/o il metterci sempre al centro e "al posto giusto" di ogni discussione... tutti atteggiamenti che non fanno onore né a noi, né alle nostre parole, né alla nostra lingua. 

 E la lingua non è "chiacchiera": è il mezzo che noi, in quanto esseri umani, abbiamo per decodificare la realtà. Negare che sia collegata a questioni sociali e politiche sarebbe da veri sciocchi: la lingua vive della relazione continua con ciò che deve descrivere.

Coinquilin* di paroleparole: