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 "Voglia di rinascita"

 

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 Non è facile stare in prima linea. Vedere gli orrori della guerra, raccontarli, capire come muoversi, sopravvivere. 

  É  come una realtà a sè stante, che nessun∂ vorrebbe mai vedere. 

 É impossibile stare in prima linea e vedere case distrutte e famiglie colpite dai proiettili senza pensare che potrebbero essere la tua casa e la tua famiglia.

 Ma fare la reporter è il tuo mestiere, lo hai scelto tu di essere la linea che collega la guerra ai lettori, agli spettatori, agli ascoltatori di podcast... e il tuo compito è far loro comprendere esattamente quello che stai vedendo e vivendo.

 L'unica scelta che hai è se mostrare gli orrori così come sono o edulcorarli. E ne hai un'altra, ancora più importante: se schierarti o no. Ma questa scelta è spesso "compresa nel mestiere": il modo in cui racconti già ti mette da una parte o da un'altra... e le tue opinioni hanno un peso...

 Siamo tutt3 bravissim3 a leggere le notizie sul giornale e pensare: "La guerra è orribile. Deve finire" E, davvero, lo pensa anche chi la sta vivendo. Ma poi noi torniamo alla nostra giornata (nella quale, chissà perché, ci mettiamo in guerra con altre persone in tempo di pace...ma questo è un altro discorso), mentre chi vive in prima linea ha la guerra come orrore quotidiano e la sopravvivenza come unico "obiettivo" da raggiungere.

 

 

 Per farla breve: non si può scrivere di guerra e farlo come si deve senza esporsi a degli imprevisti. Fare il corrispondente di guerra significa visitare luoghi straziati dal caos, dalla distruzione, dalla morte, dal dolore, e cercare di rendere testimonianza di tutte quelle cose. [-] a interessarmi è l'esperienza delle persone che vivono sulla propria pelle le ricadute più immediate della guerra, le persone che vengono mandate a combattere e quelle che cercano solo di sopravvivere. Andare sul posto di persona per vedere che cosa succede è l'unico modo per giungere alla verità. Con buona pace dei video che vi mostrano in televisione, la realtà sul terreno è cambiata molto poco nel corso degli ultimi cento anni. Crateri. Abitazioni carbonizzate. Donne che piangono una figlia o un figlio. Sofferenza. Quando si fa il mio mestiere non c'è il rischio di rimanere disoccupati. La cosa davvero difficile è conservare una briciola di fiducia nel genere umano, scommettere sul fatto che a qualcuno importerà. 

 Così si apre "IN PRIMA LINEA - TUTTI GLI ARTICOLI E I REPORTAGE" di Marie Colvin (2012, Bompiani). E la dice lunga su come  la giornalista del "Sunday Times" abbia sempre lavorato.

 Marie ha iniziato a fare la reporter nel 1987: è stata in Iran, Medio Oriente, Libia, Kosovo, Cecenia, Etiopia, Zimbabwe, Sierra Leone, Iraq e Afghanistan; ha documentato la Guerra del Golfo dal 1991 al 1996 e la situazione nelle carceri di Guantanamo nel 2002, ha perso un occhio in Sri Lanka ed è morta per un attentato in Siria.

 Ha conosciuto Arafat e Gheddafi, documentandone paure ed eccessi, ma anche contrabbandieri, fotografi, colleghi, attivisti (La sua vita era un continuo andirivieni tra la tenuta di battaglia e l'abito da sera, scrive di lei Jon Swain).  Marie Colvin però preferisce i civili e la gente comune: ogni suo articolo si apre sempre con un particolare, con la descrizione nei dettagli di una persona, con le storie alla Romeo e Giulietta, poi "apre lo sguardo" sulla realtà e finisce con una frase bomba o un aneddoto.

 Il libro è la raccolta completa del suo lavoro... decenni di parole, di lotte, di verità, raccontati magnificamente. Non ci sono intermediari: Marie Colvin non si tira mai indietro... una strada per finire un articolo la trova sempre. Non è che un bel giorno mi sono messa a scrivere di guerra. Anzi, a me sembra di parlare di esseri umani in situazioni estreme, di gente costretta a sopportare l'insopportabile, e sono convinta che sia importante far sapere alle persone che cosa succede davvero durante le guerre, dichiarate e non. [-] La guerra non è mai pulita. La guerra è fatta di persone morte ammazzate, membra mutilate, fanghiglia, pietra e carne straziata dal metallo rovente. La guerra è terrore. La guerra è fatta da madri, padri, figli e figlie devastati da un lutto inconsolabile. La guerra è fatta di bimbi traumatizzati. Il mio mestiere è rendere testimonianza. 

 

 Ho visto il film "A PRIVATE WAR" (del 2018, regia di Matthew Heineman), tratto dal libro di Marie Colvin, due volte. La prima per caso, zappingando in tv, e ho pensato "devo leggere il libro". La seconda, ovviamente, dopo aver letto il libro.

 Senza aver letto ti sembra di vedere un'opera incompiuta: una spolverata di fatti e di guerre di cui non sai e non conosci e non puoi capire l'orrore.

 A farti venir voglia di scoprirne di più è sicuramente la bravura di Rosamund Pike, riuscendo a raccontare il lato privato di una donna che non riesce ad averlo un lato privato perché, ogni volta che è a casa, anche nelle situazioni più tranquille ha incubi. Incubi in cui vede morti, in cui è in pericolo, in cui pensa di non avere fatto abbastanza.

 Dopo aver letto il libro capisci... capisci davvero cosa significano quegli incubi e non ti chiedi come mai li avesse, ma chi è che non li avrebbe, dopo esperienze simili. E negli ultimi momenti, a Homs, senti proprio la paura pervaderla... ma non la paura della guerra: la paura di non essere più lì, in prima linea, a raccontarla.

 

 Conosciamo Francesca Mannocchi per i suoi reportage di guerra. 

 La sua è una voce sensibile ma potente, che rimbomba in certi silenzi. I suoi occhi cercano l’umanità dietro pallottole e bombe. Le sue parole sono precise e competenti.

 In "VOCI DALL'AFGHANISTAN" (un podcast Choramedia, 2022) la giornalista torna a Kabul e Kandahar, a capire cosa sia successo dopo il ritorno dei talebani (i locali lo chiamano “il cambiamento”), avvenuto qualche mese prima, quando lo Stato diplomatico Usa ha lasciato il paese e molti afghani sono scappati.

 Riparte dai dettagli, camminando per le strade, dove viene continuamente controllata e perquisita da soldati armati, o in una camera d'albergo, dove non ci sono elettricità né riscaldamento e una colazione di pane, tè e uova servita da un dodicenne. 

 Spiega come sia potuto avvenire che Kabul sia tornata in mano a coloro che erano stati allontanati, a un regime dittatoriale che ha privato della libertà molti cittadini e che era stato combattuto con tutte le forze e i mezzi a disposizione: Era chiaro a tutti che Kabul più che assistere ad una conquista stesse assistendo a una resa. La città non era soltanto caduta in mano ai talebani: gli era stata consegnata.

 Narra cosa è successo dopo quell’evento: niente più guerra ma fame, mancanza di lavoro, niente denaro (i soldi sono stati bloccati dalle sanzioni economiche statunitensi per far cedere i talebani e far ribellare il popolo), diritti calpestati, persone malate che non possono curarsi… problemi, problemi, solo problemi. - dicono quelle persone - Non dovete dire che è colpa nostra, ma che ci avete abbandonati. Ed è successo perché la cultura afghana non è stata capita.